Nell’estate del 1946, il poliedrico Orson Welles era impegnato nell’allestimento del musical teatrale “Il giro del mondo in 80 giorni” quando, a causa di un’improvvisa necessità di denaro, contattò il boss della Columbia Pictures, Harry Cohn, affinché gli inviasse la somma di cui aveva bisogno; in cambio, Welles promise di realizzare per lui un film tratto dal libro “If I die before I wake”, di Sherwood King (un romanzo che Welles non aveva neppure letto). Il risultato fu “La signora di Shanghai”, un noir scritto, prodotto, diretto e interpretato dal genio di “Quarto potere” accanto a sua moglie Rita Hayworth, la superstar di “Gilda”. Tuttavia Cohn, per nulla soddisfatto del prodotto, tenne il film in magazzino per oltre un anno, tagliando quasi un’ora di pellicola rispetto alla versione originale di Welles.
Al di là delle sue travagliate vicende produttive, “La signora di Shanghai” rimane un’opera di indubbia suggestione: un trionfo del barocchismo di Welles, che prende spunto da una storia torbida e complessa per costruire un vertiginoso film noir ricco di sorprese e di colpi di scena. Welles, inoltre, si riserva il ruolo del protagonista Michael O’Hara, marinaio irruento e un po’ ingenuo, che perde la testa per l’affascinante Elsa Bannister (Rita Hayworth) e si accorge troppo tardi di essersi infilato in una trappola mortale; mentre la Hayworth, con i capelli corti e tinti di biondo, disegna il ritratto di un’affascinante quanto misteriosa femme fatale. Ma il personaggio più riuscito del film è probabilmente l’astuto avvocato Arthur Bannister (interpretato dall’attore Everett Sloane), la cui ambiguità morale è simboleggiata dal suo handicap fisico (Bannister è zoppo e cammina appoggiandosi a un bastone).
Raccontato in flashback dalla voce fuori campo del protagonista, secondo il classico topos di tanti noir degli Anni ’40, “La signora di Shanghai” è ricordato ancora oggi per alcune sequenze cult entrate di diritto nella storia del cinema: il corteggiamento fra O’Hara ed Elsa nell’acquario di San Francisco, la fuga di O’Hara nel teatro cinese e soprattutto il finale mozzafiato all’interno del labirinto degli specchi di un luna park, con le immagini dei personaggi che si riflettono e si moltiplicano, quasi a simboleggiare la vittoria dell’illusione sulla realtà. Una curiosità: lo yacht usato nel film è lo Zaca, di proprietà di Errol Flynn.
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